Il patto di non concorrenza del lavoratore di cui all’art. 2125 c.c. è un accordo che integra il contratto di lavoro anche se ha una sua autonomia, distinta dall’obbligo di fedeltà in costanza di lavoro e dai limiti di concorrenza tra imprese.
Patto di non concorrenza del lavoratore: cos’è
il patto di non concorrenza del lavoratore è previsto e disciplinato dall’art. 2125 c.c, il quale dispone che: “1. Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. 2. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata.”
Dalla lettera della norma emerge che il patto di non concorrenza intercorrente tra il datore di lavoro e il lavoratore deve presentare i seguenti requisiti per la sua validità:
- deve riferirsi al periodo successivo alla cessazione del contratto di lavoro;
- deve risultare da un documento scritto a pena di nullità;
- deve prevedere un corrispettivo per il lavoratore;
- il vincolo deve essere limitato nel tempo, nel luogo e dell’oggetto;
- la durata del vincolo non può superare i 5 anni per i lavoratori con un ruolo dirigenziale e i 3 anni negli altri casi.
L’obbligo di fedeltà durante il rapporto di lavoro
Il patto di non concorrenza del lavoratore non deve essere confuso con l’obbligo di fedeltà gravante sul lavoratore ai sensi dell’art. 2015 c.c. e a cui è tenuto nel corso del rapporto. In base a detta norma “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.”
Limiti contrattuali alla concorrenza tra imprese
Diversa ancora è poi l’ipotesi di cui all’art. 2596 c.c. che riguarda i lavoratori autonomi e ha la finalità di impedire la previsione di limiti di durata eccessivi alla concorrenza tra imprese. La norma menzionata, intitolata “Limiti contrattuali alla concorrenza” dispone infatti che “Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni. Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio.”
Fatta questa importante distinzione analizziamo i vari aspetti del patto di concorrenza richiamando la giurisprudenza più recente della Cassazione.
Il corrispettivo non deve essere iniquo o sproporzionato
La Cassazione nell’ordinanza n. 23418/2021 ha avuto modo di ribadire che “al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza disciplinato dall’art. 2125 cod. civ., (…) occorre osservare i seguenti criteri:
a) il patto non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ma può riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche volte da datore di lavoro, da identificarsi in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergano domande e offerte di beni o servizi identici o comunque parimenti idonei a soddisfare le esigenze della clientela del medesimo mercato;
b) non deve essere di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale;
c) quanto al corrispettivo dovuto, il patto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato (cfr. Cass. n. 9790 del 2020);
d) il corrispettivo del patto di non concorrenza può essere erogato anche in corso del rapporto di Ilavoro (per tutte Cass. n. 3507 del 2001).”
Natura contrattuale del patto e della violazione
In relazione, nello specifico, alla natura del patto di concorrenza di recente la Cassazione n. 18034/2022 ha ribadito che”fuori dell’ipotesi di formale stipulazione di patto di non concorrenza a norma dell’art. 2125 c.c., gli atti di concorrenza sleale (art. 2598 c.c.) compiuti dopo la cessazione del rapporto di lavoro dall’ex dipendente in danno dell’ex datore di lavoro, configurano un illecito extracontrattuale non ricollegabile al pregresso rapporto di lavoro.” Dalla pronuncia emerge quindi la natura contrattuale della violazione del patto commesso dal dipendente perché l’impegno di non mette in atto atti concorrenziali nei confronti del proprio datore, trova la sua fonte in un accordo.
Tesi suffragata anche dall’importante precisazione che la Cassazione ha ribadito nell’ordinanza n. 36941/2021: “il patto di non concorrenza costituisce una fattispecie negoziale autonoma, dotata di una causa distinta (Cass. 15 luglio 2009, n. 16489), configurando un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, in virtù del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di danaro o altra utilità al lavoratore e questi a non svolgere, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, attività concorrenziale con quella del datore (Cass. 1 marzo 2021, n. 5540).”
Autonomia e finalità integrativa del patto
Appurata la natura contrattuale del patto di non concorrenza e dalla relativa violazione, la Cassazione è andata oltre nell’ordinanza n. 36940/2021 chiarendo che comunque: “è evidente il collegamento funzionale del patto con il contratto di lavoro, cui accede con finalità integrativa del sinallagma contrattuale, realizzando le parti un meccanismo attraverso il quale perseguono un risultato economico unitario e complesso, non per mezzo di un singolo negozio ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, che conservano una loro causa autonoma, ancorché ciascuno sia finalizzato ad un’unica regolamentazione dei reciproci interessi (nel caso di specie: da una parte, la fidelizzazione del dipendente e, dall’altra, la conservazione del patrimonio di clientela al datore di lavoro), sicché il vincolo di reciproca dipendenza non esclude che ciascuno di essi si caratterizzi in funzione di una propria causa e conservi una distinta individualità giuridica.”
La risoluzione del patto non può essere rimessa al datore
Abbiamo visto che tra gli elementi che caratterizzano il patto di non concorrenza di cui all’art. 2125 c.c. c’è il limite temporale dello stesso. Ne consegue, come ha avuto modo di chiarire la Cassazione nell’ordinanza n. 4032/2022 che “la previsione di risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative, atteso che la limitazione allo scioglimento dell’attività lavorativa deve essere contenuto, in base a quanto previsto dall’art. 1225 c.c. interpretato alla luce degli art. 4 e 35 Cost., entro limiti determinati di oggetto, tempo e luogo, e va compensata da un maggior corrispettivo: con la conseguenza che non può essere attribuito al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l’attribuzione patrimoniale pattuita (Cass. 8 gennaio 2013, n. 212; Cass. 1° settembre 2021, n. 23723, secondo cui in motivazione sub p.to 6: ” … la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative; inoltre, è stato altresì precisato … che il fatto che, nella fattispecie, il recesso del patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro non rileva, poiché i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto, il che impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà; ma detta compressione, appunto ai sensi dell’art. 2125 c.c., non poteva avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore: corrispettivo che, nella specie, finirebbe per essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo: cfr. Cass. n. 3 del 2018″).”
Tamquam non esset, la rinuncia successiva al patto
La Cassazione n. 23723/2021 ha invece affermato un interessante principio relativo al caso della rinuncia successiva al patto: “l’obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto sorge, nella fattispecie, sin dall’inizio del rapporto di lavoro (Cass. n. 8715 del 2017), tamquam non esset va considerata la successiva rinuncia al patto stesso appunto perché, mediante questa, si finisce per esercitare la clausola nulla, tramite cui la parte datoriale unilateralmente riteneva di potersi sciogliere dal patto, facendo cessare ex post gli effetti, invero già operativi, del patto stesso, in virtù di una condizione risolutiva affidata in effetti a mera discrezionalità di una sola parte contrattuale (Cass. n. 3 del 2018).”
Fonte: https://www.studiocataldi.it/articoli/1298-patto-di-non-concorrenza-del-lavoratore.asp
(www.StudioCataldi.it)