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Mantenimento figli: i giudici incoraggiano i bamboccioni e il lavoro nero

Al primo grado si vincolano i figli maggiorenni al “genitore convivente” e al terzo si dosa il mantenimento sui redditi da lavoro nero.

I numerosi spunti offerti intenzionalmente e non

Nel 2018 il tribunale di Milano (sentenza n. 5103) disciplinava una separazione coniugale addebitandola al marito e assegnava l’abitazione coniugale alla moglie in quanto genitore convivente con un figlio già maggiorenne, non autosufficiente economicamente. Per il mantenimento di questi stabiliva un assegno di 1200 € mensili, da versare alla madre da parte del padre, tenuto anche a coprire le spese straordinarie nella misura del 100%. A favore della moglie stabiliva un assegno di 1300 € mensili. La signora ricorreva in Appello, chiedendo assegni più elevati, anche perché non si era tenuto conto dei profitti al nero del marito; ma la Corte respingeva il reclamo. Si rivolgeva allora alla Suprema Corte meglio precisando che non si era tenuto conto delle attività lucrative, non denunciate, del marito, benché da lei documentate, indirettamente attestate dal livello del tenore di vita, che sarebbe stato impossibile senza di quelle; così come non si era dato corso ad indagini della Guardia di Finanza benché esplicitamente richieste. Del reclamo il marito chiedeva la inammissibilità, in quanto venivano poste, a suo dire, sostanzialmente questioni di merito.

Al termine di una lunga e accurata disamina (17 pagine) la Cassazione (22616/2022) accoglie, viceversa, il reclamo enunciando il seguente principio di diritto: “In tema di separazione giudiziale dei coniugi, ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge economicamente più debole e dei figli minorenni o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti occorre accertare il tenore di vita della famiglia durante la convivenza dei coniugi a prescindere dalla provenienza delle consistenze reddituali e patrimoniali godute, assumendo pertanto rilievo anche i redditi occultati al fisco, all’accertamento dei quali l’ordinamento prevede strumenti processuali ufficiosi quali le indagini della polizia tributaria”. E aggiungendo:

“Nei giudizi di separazione giudiziale dei coniugi il potere di disporre indagini della polizia tributaria, … , costituisce una deroga alle regole generali sul riparto dell’onere della prova, il cui esercizio è espressione della discrezionalità del giudice di merito che, però, incontra un limite in presenza di fatti precisi circostanziati in ordine all’incompletezza o alla inattendibilità delle risultanze fiscali acquisite al processo. In tali casi, il giudice ha il dovere di disporre le indagini della polizia tributaria, non potendo rigettare le domande volte al riconoscimento o alla determinazione dell’assegno, fondate proprio sulle circostanze specifiche che avrebbero dovuto essere verificate per il tramite delle menzionate indagini”.

Nella sostanza, la Suprema Corte contesta alla Corte d’Appello di Milano di non avere inserito le entrate sottratte al fisco nella convinzione che non potessero costituire parametro di riferimento del tenore di vita familiare, sul quale fondare poi la quantificazione dei contributi.

Questo il tema centrale dell’ordinanza, già di per sé di notevole rilevanza. Ciò non toglie che nel trattare la materia, di passaggio e senza proporselo, la Corte fornisca ulteriori spunti, di non minore interesse. Dal grado di autonomia giuridica dei figli di genitori separati maggiorenni non autosufficienti economicamente, alla forma della contribuzione al mantenimento dei figli, alla definizione di casa familiare e ai requisiti per la sua assegnazione a soggetti che non vantano diritti reali su di essa.

Il precedente tenore di vita, le sue fonti e le risorse attuali

Un esame attento dello sviluppo del tema centrale permette di separare le argomentazioni in due parti. In un primo passaggio logico si afferma il dovere da parte del giudice di disporre indagini della polizia tributaria al fine di accertare le reali consistenze reddituali del soggetto obbligato alla contribuzione. E questa è la parte più ampiamente, se non esclusivamente, sviluppata; sicuramente convincente. Dopo di che, con un passaggio che sembra alla Corte talmente ovvio da permettere di passare rapidamente alle conclusioni, si sostiene che la nuova e più completa valutazione dei redditi dell’obbligato, benché fondata su risorse illecitamente accumulate, avrebbe influito sulla determinazione dell’assegno di mantenimento e quindi condotto ad una diversa valutazione quantitativa.

Indubbiamente la prima parte del ragionamento è condivisibile. Effettivamente si deve poter ricostruire correttamente il tenore di vita goduto in precedenza dalla famiglia. La Corte rammenta a tal fine la richiesta di “un comportamento di lealtà processuale particolarmente pregnante, che si manifesta con l’offerta di elementi probatori utili a ricostruire le effettive condizioni economiche delle parti e giunge fino a “richiedere a ciascuna di esse di fornire al giudice elementi di prova contraria al proprio personale interesse, giustificati dalla particolarità della materia del contendere, legata ad interessi aventi rilievo costituzionale (art. 2,29 e 30 Cost.).” E si aggiunge che sono state introdotte “sanzioni per il mancato deposito della documentazione senza giustificato motivo, ovvero per il deposito di documentazione inesatta o incompleta”. Perfetto, fin qui. Ad es., un accertamento esatto e completo serve per poter valutare le capacità produttive delle parti; a prescindere dal fatto che quando si indaga non si sa cosa si troverà e che comunque, in certi casi le attività potrebbero essere svolte in chiaro, togliendo poi al reddito i relativi contributi fiscali. Quindi quando la richiesta è ben fondata l’indagine conoscitiva è un atto dovuto.

Tuttavia, la tesi svolta si propone altro, ovvero di trasportare il reddito totale, tale e quale, dal passato al presente, senza ulteriori specificazioni, e fondare su di esso l’entità della contribuzione attuale. Ora, consideriamo l’ipotesi che quel reddito, magari rilevante, potesse essere prodotto solo a condizione di non denunciarlo, ad esempio per un non raro motivo di incompatibilità. Ci si troverebbe in tal caso di fronte a un precedente tenore di vita assai elevato e di conseguenza, per il ragionamento della Suprema Corte, all’obbligo di fornire una contribuzione che non corrisponde più alle risorse disponibili. Ovviamente questo nell’ipotesi che il soggetto obbligato abbia ritenuto di dover cessare quell’attività, proprio perché svelata nel corso del processo. Ma la Corte – oltre a non assumere iniziative di segnalazione, per motivi di competenza – sostiene che la contribuzione deve essere dosata includendo anche le attività illecite…: “si deve tenere conto del fatto che, ai fini dell’accertamento del tenore di vita familiare, funzionale alla quantificazione dell’assegno di mantenimento in favore di moglie e figli in sede di separazione rilevano anche i redditi sottratti al fisco e goduti dalla famiglia…”. Quindi… sembrerebbe che si stia invitando l’obbligato a proseguirle, visto che per lui è l’unica via per rispettare le prescrizioni. Ci troveremmo pertanto a considerare atteggiamenti molto prossimi a quelli considerati dall’articolo 414 c.p. Impensabile. D’altra parte, se queste considerazioni di buon senso non appaiono ancora sufficienti, si può rammentare, su un piano prettamente giuridico, che la Corte, nel momento in cui intende modulare la contribuzione sulla base del secondo parametro elencato all’art. 337 ter comma IV c.c. destinato alla quantificazione dell’eventuale assegno di mantenimento, dimentica che accanto ad esso esiste un quarto parametro ben più significativo perché aderente alla reale situazione attuale, quella che la famiglia concretamente può vivere nel rispetto della legalità, e in particolare che vive l’onerato. Pertanto il modo più sensato per affrontare il problema del lavoro in nero sembra essere proprio quello indicato dalla Corte d’appello: “l’eventuale disponibilità in passato di entrate illecite, cioè sottratte alla imposizione fiscale, … non potrà essere presa a parametro del tenore di vita svolto dal nucleo familiare e consentita per il futuro“. Anche se in effetti la corte d’appello arriva a questa conclusione per altra via.

I condizionamenti dei figli maggiorenni di genitori separati

Ma, come accennato, gli spunti sono ben di più. Si tratta, infatti, di un provvedimento che, sia pure senza avere l’obbligo di specifici approfondimenti, dal primo grado di giudizio trae, riferisce e utilizza pacificamente termini, concetti e contenuti che non appaiono scontati. Soprattutto perché lo fa non con riferimento al solo caso specifico, ma argomentando implicitamente in senso del tutto generale. Chi legge osserva come la Corte prenda atto senza alcuna perplessità di una serie di precedenti circostanze di fatto create o avallate dal Merito. Ci si potrebbe chiedere, infatti, ad es., perché la casa familiare, essendo il figlio già maggiorenne al momento della decisione, non sia stata assegnata a lui e/o considerata esplicitamente come quota parte del suo mantenimento, ricalcolando da zero e distintamente i contributi dovuti alla prole e alla ex; perché la contribuzione debba essere necessariamente sotto forma di assegno e non, almeno ipoteticamente, diretta; perché il denaro per il mantenimento del figlio maggiorenne debba essere versato nelle mani del genitore, visto tra l’altro che questi riceve un proprio contributo economico. In sostanza, sulla base di quanto osservato viene il dubbio che al sistema legale non stiano davvero a cuore prioritariamente i figli, ma piuttosto il coniuge/genitore debole; o presunto tale.

Ricostruiamo, per chiarezza, sotto quest’ultima ipotesi, come si può articolare un criterio, magari inconsapevole, che leghi le variabili sopra considerate: il figlio maggiorenne, l’abitazione familiare, cosa la rende tale, i criteri per la sua assegnazione e come si collega il tutto ai genitori. Certamente per Cass. 22616/2022 si può obiettare che tali questioni non erano oggetto di reclamo; ma la posizione rigidamente costante su di esse della Suprema Corte autorizza a trattarle in questa sede in via generale. Del resto l’ordinanza in oggetto riproduce sotto ogni aspetto casualmente presente le posizioni tradizionali.

Al centro del problema stanno i rapporti tra adulti, la coppia di genitori separati. In particolare, la convivenza prevalente di un genitore con i figli gioca da sempre un ruolo determinante su tutti gli aspetti economici, dall’assegnazione della casa familiare all’attribuzione di un assegno di mantenimentoAssegno, perché le forme dirette di mantenimento sono state sistematicamente avversate anche dopo l’introduzione dell’affidamento condiviso, che le prevede prioritariamente. E già su questo si osserva letteratura unanime ne sottolinea l’estremo vantaggio, psicologico e non solo, per i figli; mentre sicuramente ma al genitore separato piace avere in mano del denaro da gestire liberamente. Per quanto attiene ai figli di minore età non ci sono mai stati problemi nella tutela del coniuge debole grazie al fatto che è sufficiente che questi passi con i figli più tempo rispetto all’altro per collegarlo vantaggiosamente alle variabili economiche. Circostanza agevolmente creata per effetto prima dell’affidamento esclusivo, poi dell’invenzione del genitore collocatario. Questo spiegherebbe l’evidente e non superabile ostilità nei confronti di una frequentazione paritetica. Anche un solo giorno in più nell’arco del mese – che ovviamente non cambia nulla sul piano della relazione e delle eventuali ricadute psicologiche – tuttavia serve egregiamente a giustificare il regime economico differenziato. Mentre, per quanto attiene all’assegnazione della casa familiare la frequentazione paritetica spazzerebbe via alla radice il problema di superare il diritto di proprietà, visto che, chiunque fosse l’assegnatario, il figlio comunque vi permarrebbe per metà tempo, per cui la casa resterebbe sempre al proprietario. Quindi non va bene.

Il problema nasce, o meglio si complica, nel momento incui il figlio diventa maggiorenne. Se questi venisse trattato come un adulto qualsiasi, ovvero gli venisse riconosciuta una piena ed effettiva capacità di agire, inevitabilmente godrebbe della disponibilità delle risorse destinate al suo mantenimento e non ci sarebbe modo per vincolare stabilmente la sua collocazione abitativa. Pertanto occorre limitare la sua capacità di agire. Anche se molto efficacemente opera la condizione psicologica in cui viene messo. Perché il figlio maggiorenne di genitori separati si trova nella condizione di dover stare attento ai propri spostamenti, ovvero a doverli limitare, perché implicitamente ricattato dall’idea che muovendosi può far perdere a uno dei genitori la possibilità di rimanere nella casa familiare. O anche, molto probabilmente, se poco poco accenna a qualche novità si sente dire “Ma come, vuoi farci litigare…?”.

Naturalmente non si può riconoscere esplicitamente che in concreto si è fatto di lui un adulto dimezzato. Quindi si fa, ma non si dice. E come? Attribuendogli un “genitore convivente”, ben distinto dal “genitore non convivente”. È opportuno notare che quel medesimo soggetto oggi maggiorenne nella stragrande maggioranza dei casi viene da un affidamento condiviso, ossia da una frequentazione che, anche se non è stata “equilibrata e continuativa”, comunque ha previsto la sua presenza presso due genitori e in due case. Viceversa, bizzarramente, divenuto maggiorenne, quando la sua libertà di movimento dovrebbe essere totale, con relativa possibilità di frequentare ad libitum l’uno come l’altro genitore, la giurisprudenza considera scomparso uno dei due e la sua convivenza diventa esclusiva presso un genitore solo. Il tutto accompagnato da adeguata terminologia, per cui il genitore “prevalente” – con differenze solo parziali e quantitative rispetto all’altro – diventa “convivente”, come appena osservato, con uno stato giuridico radicalmente diverso dall’altro rispetto al figlio e alle relazioni economiche del gruppo familiare. Giova rammentare a questo proposito che il protocollo del tribunale di Varese impone ai genitori che si separano e hanno un figlio maggiorenne di dichiarare con quale di essi il figlio vivrà. Come se lui non avesse diritto di parola e tantomeno di cambiare opinione, spostandosi dove vuole e quando vuole.

I requisiti della “casa familiare”, passata, presente, futura

E la casistica non è esaurita. Che fare quando l’abitazione che il coniuge debole vorrebbe farsi assegnare è stata da tempo (ad es., dal luglio 2017) abbandonata e ci si è trasferiti altrove? Ovvero quella casa è “familiare” al passato. Lo illustra una sentenza del tribunale di Rieti (sez. I, 07/03/2022, n. 112) disponendo “l’assegnazione alla ricorrente della ex casa coniugale …, presso la quale anche la figlia maggiorenne Ol. continuerà a vivere fino a quando non avrà raggiunto l’indipendenza economica”. Una formulazione didatticamente perfetta, visto che l’abitazione è candidamente definita “ex casa coniugale”, mentre si dispone che la figlia ci debba vivere (si usa il futuro del modo indicativo) fino all’autosufficienza. Naturalmente in occasione di un cambiamento delle circostanze o della propria volontà la ragazza, o il padre, potranno sempre agire in giudizio per adeguare il provvedimento alla nuova situazione di fatto. Tuttavia è la decisione iniziale che è contestabile, sia in punto di diritto che per motivi di opportunità, richiedendo, o provocando, azioni legali interne allo stesso nucleo familiare, eventualmente anche di figli contro i genitori.

D’altra parte, il giudice del merito di Rieti per sostenere una tesi che sa coraggiosa cerca sostegno nella giurisprudenza precedente (v. infra), ovvero nella definizione di casa coniugale/familiare, per la quale, in omaggio al più generale principio di “conservazione dell’habitat” si intende il ” luogo in cui si è svolta in modo stabile, duraturo e prevalente la vita familiare durante la convivenza, il luogo che ha costituito il centro di aggregazione e di unificazione della vita familiare ovvero “il luogo degli affetti, degli interessi e delle consuetudini della famiglia durante la convivenza dei suoi membri”. Dove gli indispensabili riferimenti temporali sono sottintesi negli aggettivi “stabile” e “duraturo”, in forza dei quali si vuole dire che la rottura del legame familiare non deve essere risalente, ma contiguo alla vita familiare solidale. Non a caso, la giurisprudenza di legittimità ha rilevato più volte che la stabilità della vita familiare in una determinata abitazione è un requisito fondamentale ai fini dell’assegnazione. Requisito rafforzato dalla riforma del 2006 secondo la quale tra le cause di revoca del provvedimento di assegnazione è l’ipotesi secondo la quale “l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare”. Continuità e stabilità appaiono dunque come requisiti imprescindibili.

Chi scrive ritiene, a questo punto, di poter affermare che un ruolo determinante nella diversità delle letture viene giocato dal termine “conservare”. In altre parole – e lo si vede soprattutto dalle regole per l’assegnazione della casa familiare delineata nel 2006 all’attuale articolo 337 sexies c.c. – al centro della decisione sulla casa familiare sta l’interesse dei figli. Questo, evidentemente, può scavalcare il diritto reale più forte, quello di proprietà, solamente nel caso in cui si voglia sostenere, ovvero realmente prevalga, il citato principio della conservazione dell’habitat, ovvero si voglia evitare ai figli minorenni (in quanto soggetti delicati e fragili) l’ulteriore trauma della separazione dal luogo della crescita nello stesso momento, o consecutivamente al momento, in cui si è spezzata l’unità familiare. Nella fattispecie considerata, viceversa, non è in gioco una conservazione perché la casa familiare, o quella che può considerarsi tale, è stata abbandonata da tempo, quindi la rottura e il distacco sono già stati vissuti. In secondo luogo, questa analisi è riservata ai figli maggiorenni, ovvero non si tratta di soggetti fragili, ma di adulti. Pertanto l’idea della necessità di proteggere il soggetto debole, che scavalchi qualunque altro criterio del diritto, non appare sostenibile.

Riprendendo, dunque, la giurisprudenza invocata dal giudice di Rieti, questa parte dagli anni 80 e si ferma al 2011 (Cass. 14553), e ovviamente è citata per rafforzare le proprie conclusioni. Si omette tuttavia di rammentare che quella pronuncia si concludeva negativamente, ovvero in quel caso il primo grado aveva negato l’assegnazione della casa alla madre, la Corte d’Appello di Reggio Calabria l’aveva concessa e la Cassazione riprende la tesi del primo grado cassando la decisione dell’Appello. Comunque, ciò che interessa è che Cass. 14553/2011, sia pur dissentendo, fa conoscere il punto di vista calabrese (in corsivo) che accoglie una richiesta di assegnazione di una casa mai abitata: “pur essendo indubbio che l’abitazione in S fosse stata “di fatto l’abitazione coniugale, ma soltanto perché i coniugi non avevano ancora acquistato una propria abitazione da adibire a sede della famiglia”. Secondo la corte di appello l’acquisto della casa in C, per l’importo del prezzo di acquisto, del relativo mutuo acceso, della tipologia di arredamento, denotava la volontà dei coniugi di adibire il fabbricato acquistato allo stato rustico a futura abitazione coniugale. Tale aspettativa … doveva certamente farsi quindi rientrare tra le aspettative del nucleo familiare e, quindi, anche dei figli”. Pertanto secondo la CA può essere considerata “casa familiare” l’abitazione in cui la famiglia “pensava” di trasferirsi, ovvero quel luogo verso il quale erano state proiettate delle aspettative che, viene sostenuto, appartengono all’intero nucleo familiare. In altre parole, si vorrebbe proteggere i figli non da uno “sradicamento”, ma da una “delusione” rispetto a sogni coltivati (o almeno ritenuti tali).

Gli studenti fuori sede

Purtroppo, però, per chi volesse sostenere gli interessi del genitore i guai non sono finiti. I figli maggiorenni, infatti, molto spesso si allontanano dalla casa familiare per andare a studiare altrove, fuori sede, iniziando a tagliare concretamente (finalmente) il cordone ombelicale. A quel punto tipicamente il genitore che ha perduto la casa si attiva per recuperarla, proprio perché ritiene venuto meno il requisito della “convivenza”. È pertanto divenuto necessario sviluppare e approfondire tale concetto. Ne dà illuminante esempio Cass.4555/2012, che riprende una precedente tesi (Cass. 11320/2005), secondo la quale “al fine di ritenere integrato il requisito della coabitazione, basta che il figlio maggiorenne – pur in assenza di una quotidiana coabitazione, che può essere impedita dalla necessità di assentarsi con frequenza, anche per non brevi periodi – … mantenga tuttavia un collegamento stabile con l’abitazione del genitore, facendovi ritorno ogniqualvolta gli impegni glielo consentano, e questo collegamento, se da un lato costituisce un sufficiente elemento per ritenere non interrotto il rapporto che lo lega alla casa familiare, dall’altro concreta la possibilità per tale genitore di provvedere, sia pure con modalità diverse, alle esigenze del figlio.”. Conclude, quindi, la Corte nel 2012: “In virtù di tale indirizzo, la coabitazione non cessa per l’assenza, anche per periodi non brevi, del figlio per ragioni di studio o di lavoro.” Ma osserva giustamente che “L’ampia accezione del rapporto di coabitazione, così elaborata, rivela profili di incompletezza che finiscono con il dilatare enormemente l’area semantica del termine coabitazione, con il rischio di farne sinonimo di ospitalità“.

Il che la conduce ad una analisi meramente (e opinabilmente) quantitativa proprio nel caso che è direttamente chiamata a valutare: quanto frequenti devono essere i rientri per non far perdere al rapporto il carattere di convivenza? Un giovane di Lecce si è trasferito a Torino, dove studia e lavora con un contratto a tempo indeterminato. Però ogni tanto torna a casa della madre. Secondo la Corte d’appello di Lecce ciò le salva il diritto all’abitazione; secondo la Suprema Corte no: bisogna calcolare quale frazione dell’anno trascorre a Lecce e quale a Torino. Tutto molto opinabile e discutibile; ovviamente. Ora, al di là dell’evidente imbarazzo di criteri del genere, è forse opportuno chiedersi come e perché si giunga a impantanarsi in questo tipo di valutazioni. E la risposta è: perché si è del tutto abbandonato il principio base, ovvero l’evitare a soggetti fragili il trauma della perdita rassicurante del tetto familiare e del luogo della crescita e degli affetti, per invocare criteri che sempre più strettamente coinvolgono soggetti adulti. Ovvero, delle ragioni che avevano fatto superare i diritti reali sul bene non è rimasto praticamente nulla. Anche perché quel poco che resta della teoria della conservazione dell’habitat non verrebbe toccato. Difficile sostenere per un soggetto maggiorenne, per giunta attivo fuori sede, che verrebbe traumatizzato se rientrando trovasse in quell’abitazione il genitore proprietario anziché il genitore assegnatario. Siccome non è lecito pensare che questa elementare osservazione sia sfuggita all’organo giudicante, appare più che probabile sulla base dell’esempio di Torino che l’attenzione non è per i figli, ma per il “coniuge debole”.

E ancora un esempio di bizzarrie che confortano il dubbio che ai figli si pensi ben poco. Si potrebbe sostenere che la casa familiare è quella, mai abitata, che però risulterebbe più comoda per motivi pratici? È la tesi del Tribunale di Modena, anche se respinta dalla Corte di Appello di Bologna, confermata dalla Suprema Corte (4816/2009) secondo la quale “La circostanza che esso [luogo] fosse … logisticamente più idoneo alla figlia, perché più vicino alla scuola da lei frequentata e ai parenti della signora non valeva ad integrare i presupposti del provvedimento. L’individuazione della casa coniugale non poteva, infatti, fondarsi sui desideri del minore, ma esclusivamente sull’importanza del suo eventuale sradicamento da precedente habitat domestico”. Tesi, dunque, bocciata, ma solo al secondo grado.

Interesse dei figli o tornaconto dei genitori?

Queste riflessioni in effetti sembrano dare risposta al dubbio iniziale, cioè se davvero la preoccupazione dominante degli organi di giudizio sia quello della tutela dei figli, minorenni o maggiorenni che siano, o le preoccupazioni siano altre. La domanda appare ragionevole, perché mentre sono evidenti i vantaggi per il “genitore convivente dell’attuale lettura dell’art. 337-septies c.c., per il figlio maggiorenne la giurisprudenza attuale è fortemente penalizzante, con l’unica eccezione di Cass. 17183/2020, immediatamente smentita da successive pronunce e stroncata da prevalente dottrina. Tanto che c’è da chiedersi perché non si adotti la diretta assegnazione dell’abitazione al figlio maggiorenne, al limite ritoccando gli aspetti formali delle norme attuali. Ma forse anche facendone a meno, visto che non manca in qualche più avanzata pronuncia della Suprema Corte l’implicito riconoscimento che l’assegnatario della casa familiare è (o può essere) il figlio maggiorenne, dato che, ad es., si afferma in Cass. 4555/2012 “…una problematica – quella sulla nozione di coabitazione – traibile dall’art. 155 quater c.c., secondo cui il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare”. Il che vuol dire che per gli Ermellini assegnatario è il figlio e il genitore può restare in quella casa solo fino a che coabita con lui.

E agli abbondanti esempi forniti si potrebbe aggiungere il prevedibile nullaosta concesso al genitore collocatario che si voglia trasferire a centinaia di chilometri di distanza (ovvero la tolleranza in caso di iniziativa unilaterale), nella totale indifferenza rispetto al conseguente sradicamento dei figli, benché in affidamento condiviso, sommato alla perdita di contatto con l’altro genitore.

Stato etico e/o Stato diseducativo

Tuttavia permane presso le istituzioni un costante riferimento all’esclusivo interesse del minore”, come se lo Stato volesse insegnare ai cittadini come ci si comporta. Ma in realtà l’espressione si presenta come una comoda formuletta, una sorta di salvacondotto per giustificare le proprie scelte. Scelte che, a ben guardare, sono essenzialmente a favore del “coniuge debole”.

C’è qualcosa di male in questo? Assolutamente no. È una preoccupazione legittima. Ciò che non va bene, che non è accettabile, è il modo tartufesco e ipocrita con cui una fondamentale componente dello Stato vuole far passare un suo punto di vista, sicuramente ideologico e politico ma comprensibile e difendibile, spesso arrampicandosi sugli specchi per arrivare alle volute conclusioni per vie traverse e pertanto trattando i cittadini come ingenui o sciocchi. O meglio, dando loro esempi di un modo furbesco di condursi, aggirando norme e principi del diritto; il che appare altamente diseducativo. A parte il fatto che per questa via, surrettizia e tortuosa, mettendo al centro la casa familiare viene tutelato solo il coniuge debole con figli. Mentre la donna (perché di lei prevalentemente si tratta) senza figli resta senza protezione.

Non solo. Comprimendo in questa operazione proprio diritti e ruoli di quella componente, i figli, che si afferma di voler tutelare. Comunque, nulla quaestio sul preoccuparsi anche del coniuge debole; ma tenendo separate le due tutele. Si sviluppi il quadro relazionale sottinteso dallo schema attuale con il genitore convivente che vanta la titolarità di diritti economici “jure proprio e non ex capite filiorum (maggiorenni) poiché è lui che provvede a quanto loro serve anticipandone i costi” (perché mai prima che arrivi il contributo dell’altro al 5 del mese? In fondo è obbligato anche lui). Se a stento lo si comprende per figli permanentemente presenti (ma non si potrebbe/dovrebbe applicare l’art. 315 bis comma IV c.c.?), ancora meno convince un ragionamento del genere per un figlio che ha già dato prova, ad es. come studente fuori sede, di sapersi organizzare in modo autonomo. Pure la stessa ordinanza già citata (4555/2012) ne fa una questione di misure (si deve accertare se il figlio torna spesso o no) e non di qualità della organizzazione familiare: “la legittimazione persiste in quanto resta invariata la situazione di fatto oggetto di regolamentazione, e più specificamene restano identiche le modalità di adempimento dell’obbligazione di mantenimento, e se è vero che è proprio il fatto oggettivo della convivenza che vale a protrarre l’attività di cura materiale del figlio divenuto maggiorenne poiché il genitore convivente continua a effettuare tutte le prestazioni necessarie e adeguate alle esigenze di questo sostenendone direttamente e quotidianamente il peso economico”. Il che ci dà il quadro di una mamma che continua a fare la spesa, preparare i pasti, stirare le camicie e far trovare la biancheria pulita ai piedi del letto al giovanotto, impiegato stabilmente nella più prestigiosa azienda torinese, che rientra da un esame sostenuto altrove, dove comunque ha già dimostrato di sapersela sbrigare da solo. Notevole esempio di regressione infantile indotta.

Insomma, il nostro sistema legale fa di tutto per incentivare il modello dei bamboccioni e gli interessati se ne devono difendere da soli.

Concludendo, non sarebbe più corretto e più semplice ufficializzare e legalizzare la protezione del coniuge debole? E’ vero che non è compito della magistratura scrivere le leggi, ma ben può sollecitarle. Certo, occorrerebbe fare un buon lavoro di tipo legislativo per conciliare l’intervento con la tradizionale forza dei diritti reali. Ma non sarebbe compito impossibile, ad esempio sulla base dell’articolo 2 della Costituzione. Stiamo aspettando.

Fonte: https://www.studiocataldi.it/articoli/44883-mantenimento-figli-i-giudici-incoraggiano-i-bamboccioni-e-il-lavoro-nero.asp
(www.StudioCataldi.it)