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I maltrattamenti in famiglia possono avere un’accezione culturale?

Riflessioni sul caso del PM di Brescia che formula richiesta di archiviazione del caso di un cittadino del Bangladesh perché i comportamenti violenti fanno parte della cultura cui appartiene.

Ha fatto scalpore la vicenda del PM che ha chiesto l’archiviazione dal reato di maltrattamenti in famiglia per fatti culturali.

A Brescia, il Pubblico Ministero ha chiesto l’archiviazione del caso di un cittadino del Bangladesh accusato di violenze, minacce e maltrattamenti nei confronti della ex moglie per motivi “culturali”, giustificando il comportamento dell’uomo e definendo che: “I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura, che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”.
La donna aveva denunciato l’ex marito nel 2019; dichiarò di essere stata costretta a sposare l’uomo a seguito della morte del padre, la famiglia, infatti, gli zii nello specifico, l’avrebbero “venduta” all’uomo per la cifra di 5.000 € incuranti delle opposizioni della ragazza. Dichiarò anche che a seguito del matrimonio fosse stata costretta a rimanere chiusa in casa e ad indossare gli abiti tipici della tradizione islamica e che in tutti i casi in cui si fosse opposta alle costrizioni del marito scattavano le urla e le minacce.
Il magistrato sostiene dunque che la donna avesse implicitamente accettato un trattamento “tipico della cultura Bengalese” sposando l’uomo e che poi abbia ritenuto intollerabile la situazione solamente perché, crescendo in Italia, sia venuta a conoscenza dei diritti garantiti dalla società occidentale rifiutando il modo di vivere imposto dalle tradizioni bengalesi.
Ora, risulta piuttosto chiaro dall’articolo 572 del codice penale che: “Chiunque (…) maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni” e che non ci sia alcun tipo di distinzione in base alla “cultura d’origine” in caso di maltrattamenti.
La Procura di Brescia ha, infatti, diffuso una nota per dissociarsi in maniera formale dalla richiesta di assoluzione del PM: “ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi riferimento ‘culturale’, nei confronti delle donne“.
Viene dunque da chiedersi come sia possibile che un PM presenti una richiesta di archiviazione, in un caso di violenze e maltrattamenti, per motivi “culturali” aprendosi quindi ad un relativismo giuridico decisamente fuorviante e fuori luogo per il nostro ordinamento.
Questa decisione si inserisce, tra l’altro, in un periodo di particolare stretta sulla lotta alle violenze di ogni tipo e proprio per questo desta ancora più scalpore la ricerca di una giustificazione di un comportamento ingiustificabile.
Ci auguriamo che, a prescindere dalla società di appartenenza, chi compie un reato connotabile come tale nel codice penale abbia il medesimo trattamento perché compiuto nel nostro territorio.

Fonte: https://www.studiocataldi.it/articoli/46135-i-maltrattamenti-in-famiglia-possono-avere-un-accezione-culturale.asp
(www.StudioCataldi.it)