Skip to content Skip to sidebar Skip to footer

Amministratori di condominio “incompresi”

Gli amministratori di condominio sono gli eterni professionisti non riconosciuti per legge, un unicum tutto italiano.

Amministratore di condominio, professione non regolamentata

Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità” diceva Camillo Benso, conte di Cavour. Se si tratta di dignità professionale, però, diventa arduo rivendicarne una propria in assenza di qualsivoglia riconoscimento giuridico.

E’ questo il caso degli amministratori di condominio, eterni professionisti non riconosciuti ex lege.

Sì, per legge, perché il primo a non riconoscerli è proprio il legislatore, considerato che li inserisce nel limbo delle professioni non regolamentate, disciplinate (si fa per dire) dalla L. 4/13, che impone loro il diritto/dovere di contraddistinguere la propria attività in qualsiasi documento “con l’espresso riferimento, quanto alla disciplina applicabile, agli estremi della presente legge“: una sorta di generico bollino sulla carta intestata, insomma, nulla di più.

Se vogliono, tali professionisti hanno “il diritto di costituire associazioni senza l’obbligo di iscrizione ad un albo” e, sempre se vogliono, tali associazioni si possono iscrivere nell’Albo delle Associazioni degli Amministratori di condominio depositato presso il MISE, un registro di natura meramente amministrativa che raccoglie semplici autodichiarazioni di possedere i requisiti previsti dalla L.220/12. Il risultato di tali “diritti facoltativi” è che delle circa 52 associazioni di categoria presenti sul territorio nazionale, solo 17 sono quelle iscritte al MISE.

Requisiti iscrizione (facoltativa) associazioni di categoria

Ma quali sono i requisiti per iscriversi facoltativamente alle associazioni di categoria, costituite sempre su base volontaria, di cui alla L. 220/12, meglio nota come “riforma del condominio”?

Si legga l’art. 71 bis disp. att. c.c.: “godere dei diritti civili (ossia essere umani), non aver subito condanne “per delitti contro la pubblica amministrazione, l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni” e non essere “stati sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione” (ossia non essere delinquenti), “non essere interdetti o inabilitati” (ossia essere capaci di intendere e volere); non essere annotati “nell’elenco dei protesti cambiari” (quindi essere più o meno solvibili e solventi), “avere conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado” (possedere il c.d. straccio di diploma); “aver frequentato un corso di formazione iniziale e svolgono attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale“.

A ben vedere gli unici due requisiti che distinguono l’amministratore dal quisque de populo sono l’avere un diploma e una formazione.

Lo sconforto diventa totale se si prosegue nella lettura del citato articolo, perché proprio questi due requisiti non sono necessari per l’amministratore interno, ossia quello nominato tra i condomini dello stabile. Con un solo comma, il legislatore lascia intendere che l’amministratore lo può fare chiunque, anche il vicino di pianerottolo.

Con il successivo decreto ministeriale n. 140 del 2014 si è cercato di dare una parvenza più dignitosa inserendo l’obbligo di formazione periodica, il che, però, ha scatenato la fantasia di organismi vari che offrono a prezzi stracciati sedicenti corsi abilitanti che alla fine rilasciano meri ‘attestati di frequenza’, pezzi di carta validi solo per riempire pareti, creando confusione tra gli utenti e facendo concorrenza agli enti certificati e gli ordini di riferimento accreditati dal Ministero, ossia gli unici realmente abilitanti.

La new entry nel campo della formazione è la laurea triennale in amministrazione condominiale proposta dalla neonata Facoltà di Esperto amministrativo Amministratore di Condominio, la quale, però, fa parte non di una università iscritta al MIUR, ma di una “accademia universitaria” privata. Singolare che per accedere al corso sia previsto un test di ammissione, quando per esercitare la professione di amministratore non è richiesto nulla di simile.

Infine, che l’amministratore non sia un professionista come tutti gli altri è confermato dal fatto che non è obbligato ad avere la pec: come noto, è obbligatoria dal primo ottobre 2020 per professionisti ed imprese, dove per professionisti si intende solo quelli iscritti a ordini o collegi. Ed è un obbligo talmente importante che se i professionisti non si adeguano sono soggetti alla sanzione disciplinare della sospensione.

Non esistendo un ordine per gli amministratori di condominio che li obblighi ad avere una PEC, e non essendo obbligatorio iscriversi ad una associazione di categoria, gli amministratori “freestyle” non iscritti ad albi professionali né che operano in forma d’impresa possono non avere la pec e, se ce l’hanno, possono non iscriverla nei registri pubblici della posta certificata, il che impedisce, ad esempio, la notifica di atti giudiziari via pec, diventata con la riforma Cartabia la regola, relegando la notifica tramite posta ordinaria a eccezione.

Tirando le somme, trova conferma che la professione di amministratore non è riconosciuta per legge e per esercitarla non è richiesto un preventivo esame abilitante come per le professioni riconosciute, ossia quelle ordinistiche.

Non esiste un albo degli amministratori, la cui iscrizione è conditio sine qua non per l’esercizio della professione unitamente al superamento di uno specifico esame abilitante avente fonte normativa, ma un albo delle associazioni degli amministratori, un mero registro che contiene l’elenco di associazioni costitute su base volontaria, di natura privatistica e senza alcun vincolo di rappresentanza esclusiva (art. 2 L.4/13), quindi non enti pubblici come gli ordini professionali regolamentati dal Ministero di Grazia e Giustizia e retti da un organo di autogoverno, ossia il Consiglio, eletto dagli iscritti.

Aspetti deontologici

Anche sotto l’aspetto deontologico la professionalità non è garantita: mentre la violazione del Codice deontologico, di fonte normativa, comporta sanzioni di graduale gravità fino alla radiazione, quindi al divieto di esercizio della professione, la violazione delle eventuali norme di comportamento autodettate dalle associazioni degli amministratori comporta, al massimo, la cancellazione da quell’albo: ricordando che la costituzione in associazione è volontaria, l’iscrizione ad essa pure, l’epurato sarà libero di iscriversi ad altra associazione o a nessuna, oltre a poter continuare a fare l’amministratore. Tutela per gli amministrati e per la dignità della categoria? Nessuna. Anche perché, dato che l’incarico all’amministratore trova fonte nel contratto di mandato (art. 1703 c.c.), per revocarglielo serve pure una valida delibera assembleare oppure ricorrere al giudice per gravi irregolarità (art. 1129 c.c., co.11).

L’amministratore di condominio, quindi, di fatto e anche un po’ di diritto è equiparato a un privato cittadino qualsiasi, al quale si chiede solo un obbligo formativo, soddisfatto il quale potrà svolgere una professione non riconosciuta che comporta competenze multidisciplinari (perché l’amministratore deve essere un po’ avvocato, commercialista, ingegnere, consulente del lavoro, psicologo, ecc. ecc.) e l’assunzione di responsabilità sempre più gravose e per di più civilmente, amministrativamente e penalmente rilevanti. Il paradosso si fa grottesco ricordando che perfino l’assicurazione professionale è eventuale ex lege: in forza dell’art. 1129 c.c., “l’assemblea può subordinare la nomina dell’amministratore alla presentazione ai condòmini di una polizza individuale di assicurazione“. Per fortuna soccorrono le associazioni di categoria, che però, come ricordato sopra, sono soggetti di diritto privato costituite su base volontaria e senza vincolo di rappresentanza esclusiva e non è obbligatorio iscriversi ad esse.

Unicum italiano

Comparando la situazione degli amministratori di condominio in Italia con i colleghi europei, si ricava che nel nostro Paese sono quasi più del triplo, probabilmente proprio perché tale incarico viene svolto spesso da singoli condòmini (pensionati e dopolavoristi) che si improvvisano amministratori per “far risparmiare”.

Più in generale, l’Italia è l’unica nazione che non regola la professione di amministratore, pur aumentandone costantemente le responsabilità, basti pensare al delirio dei bonus edilizi.

Non solo: in Italia gli amministratori sono anche i meno pagati d’Europa, € 8/mese per unità immobiliare contro, ad esempio, € 25/mese in Germania. Che poi, sul punto, fa specie calcolare un compenso a unità immobiliare, perché il metro di misura dovrebbe essere la qualità e non la quantità. Lo stesso dicasi sull’oramai anacronistico obbligo di nominare un amministratore di condominio solo quando i condòmini sono più di otto (art. 1129 c.c.), come se palazzine di sette appartamenti fossero esenti dalle stesse problematiche di quelle più grandi per quanto attiene, tanto per fare un esempio banale, al rispetto delle normative anti-incendio e di sicurezza.
Forse, piuttosto che inventarsi costi abilitanti da vendere su Groupon, sarebbe giunta l’ora di dare reale e concreta dignità ad una professione che la merita e che la aspetta davvero da troppo tempo.

Fonte: https://www.studiocataldi.it/articoli/45926-amministratori-di-condominio-incompresi.asp
(www.StudioCataldi.it)